Sanihelp.it – L’esame del PSA (antigene prostatico specifico) non può essere utilizzato in maniera indiscriminata come strumento di screening del tumore della prostata, la più frequente neoplasia maschile che ogni anno in Italia fa registrare circa 23.500 nuovi casi e 7000 decessi. Va eseguito solo negli uomini over 50, se vi è familiarità diretta per il tumore alla prostata e quando si soffre di disturbi urinari. Il PSA non può essere l'unico strumento diagnostico dato che la sensibilità del test varia dal 70 all’80%, quindi il 20-30% delle neoplasie non viene individuato.
La XIX Conferenza Nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) si è concentrata proprio sui tumori urologici (della prostata, del rene, del testicolo e della vescica). Spiega il professor Carmelo Iacono, presidente nazionale AIOM: «Non è stabilita una soglia standard in questo esame che indichi con certezza la presenza di un carcinoma e valori elevati possono essere dovuti a un’infiammazione o a un’infezione. In questi casi sono necessari ulteriori accertamenti, in particolare attraverso la biopsia, per arrivare a una diagnosi più precisa. Al tradizionale test di partenza (PSA) si affiancano oggi due nuovi marcatori (PHI e PCA3) che consentono di ottenere risultati più specifici e quindi di maggiore, anche se non totale, affidabilità. Non vi sono evidenze scientifiche che stabiliscano l’opportunità di utilizzare lo screening in maniera diffusa sulla popolazione generale, tendenza che aumenterebbe il rischio di sovradiagnosi e uno scarso vantaggio in termini di riduzione di mortalità. È importante, anche per la sostenibilità del sistema, che venga operato un bilancio tra costi e benefici».
Aggiunge Luigi Dogliotti, professore di oncologia medica dell’Università di Torino, A.O.U. San Luigi di Orbassano (TO), e presidente della XIX Conferenza Nazionale AIOM: «Vogliamo trattare il tumore della prostata seguendo il modello organizzativo ormai consolidato per il cancro del seno con le Breast Unit. La creazione di Prostate Unit, in cui lavorino in stretta sinergia urologi, oncologi, radioterapisti e anatomopatologi, consentirebbe infatti di ridurre ulteriormente la mortalità di questa neoplasia».
Negli ultimi cinque anni ci sono stati cambiamenti epocali nel trattamento del tumore della prostata e del rene, come spiega il professor Massimo Aglietta, direttore della Divisione di Oncologia Medica dell’Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro di Candiolo (TO): «La sopravvivenza media del carcinoma della prostata ormonoresistente è passata da uno a quasi cinque anni. Il carcinoma prostatico, infatti, un tempo poteva essere trattato solo con la terapia antiormonale, oggi nuovi farmaci chemioterapici e target antiandrogeni hanno cambiato radicalmente le prospettive, anche per la fase metastatica. Nelle neoplasie renali, che ogni anno colpiscono circa 8000 persone nel nostro Paese, grazie all’identificazione di specifici bersagli molecolari, da un bagaglio di farmaci molto limitato e di modesta attività, siamo passati a un vero boom di opzioni terapeutiche, in continuo sviluppo, con risultati molto incoraggianti anche in fase avanzata».