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Nella testa del mostro: i perché di un serial killer

Sanihelp.it – Il primo è stato Jack Lo Squartatore nel 1888. Il primo pluriomicida seriale della storia. Allora si diceva così, perchè il termine serial killer è stato coniato dopo, negli anni ’50.
Da quel momento in poi, comunque, la figura del serial killer è sempre stata circondata da un alone di orrore ma anche di curiosità.


Ma chi è davvero il serial killer?
Lo abbiamo chiesto al professor Ernesto Ugo Savona, ordinario di criminologia e sociologia del diritto alla facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica del S.Cuore di Milano, e membro dell’European Sociey of Criminology.

«Pur nella complessità e nelle differenze da caso a caso, molto semplicemente il serial killer non è una persona normale, anche se poi bisognerebbe indagare quale sia il concetto di normalità, se esiste. Si può individuare un fattore di riconoscimento comune: tutti i serial killer hanno avuto seri problemi nell’infanzia e nell’adolescenza, nel rapporto con gli altri ma soprattutto con la madre».
La non risoluzione di questo conflitto, spiega Savona, «è dimostrata dal fatto che i serial killer uccidono quasi sempre donne, spesso prostitute o sconosciute a caso». Vittime ignare, che hanno la sfortuna di risvegliare il mostro nascosto in questi individui.

Il manifestarsi della follia omicida dei serial killer, infatti, non è un percorso costante.
Da quando qualcosa nella loro anima si è spezzato, possono passare anni prima che la loro patologia si manifesti.
«Si tratta di fasi altalenanti, chiamate stop and go, caratterizzate da momenti di furia subito seguiti da periodi di calma, durante i quali il serial killer conduce la vita di sempre».

Allora è possibile che un serial killer si nasconda dietro la porta accanto, o peggio in modo latente in ognuno di noi?
«Il serial killer non può essere la persona qualunque vicino a noi, anche se comunque non lo riconosceremmo. Il serial killer ha subìto traumi così forti da arrivare a possedere la capacità di uccidere, dieci o anche cento volte. Nessuno se non in quelle condizioni ci riuscirebbe».

Ma quali sono i traumi in grado di scatenare una disperazione e una rabbia così profonde?
«Si tratta di traumi infantili, violenze fisiche, psicologiche o sessuali subite quasi sempre in ambito familiare o vissute come spettatore inerte. In particolare pesano i rapporti conflittuali vissuti con la madre o altre donne, e i rapporti negativi con il padre. Si tratta sempre di rotture a livello psicologico».

Non ci sono corrispondenze fisiologiche o mediche che individuino un serial killer?
«No, al massimo la presenza di problemi di impotenza sessuale (che però a sua volta ha quasi sempre cause psicologiche). Invece, a livello di rapporti interpersonali, i disagi sono enormi».


Conflitti irrisolti con la madre, omicidi prevalentemente femminili …
Perché il serial killer è quasi sempre un uomo?
La risposta è semplice, ma nasconde un universo complesso:
«La struttura della donna è totalmente diversa, e così la sua psiche. Una donna non vive la conflittualità con la figura materna, e non prova quel bisogno di sopraffare e di dominare che invece l’uomo sfoga ai danni dell’altro sesso. I casi di serial killer donne sono rarissimi, e motivati da altre cause».

Leggendo i numerosi casi clinici dei mostri della nostra storia, si percorrono storie efferate, di incredibile violenza e ferocia. La condanna a questi delitti è unanime.
Eppure, dai racconti di ex-serial killer ormai arrestati emerge sempre l’aspetto tragico dei soprusi subiti, della disperazione senza fondo che hanno provocato.

Il serial killer è anche una vittima?
«Il serial killer è vittima, mostruosa quanto si vuole ma vittima, di una società violenta a sua volta. Bisognerebbe spezzare questo filo rosso».

Purtroppo però il serial killer viene riconosciuto solo quando lo è già diventato, quando ha già compiuto le sue vendette contro la società, e il suo destino è un carcere a vita che non si preoccuperà certo di recuperarlo.

Non esiste un modo per salvare la persona prima che il mostro venga allo scoperto?
«Il modo, forse, ci sarebbe. Si tratterebbe di fare un investimento, in termini di formazione e informazione, su genitori e insegnanti. Cioè sulle persone che vivono da vicino la crescita di un bambino, e potrebbero individuare eventuali campanelli d’allarme, come comportamenti violenti verso gli altri bambini o gli animali».

Un grosso impegno, che per ora hanno raccolto in pochi.

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