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Infarto: misurata la capacità protettiva degli acidi grassi

Sanihelp.it – Esiste una correlazione, ormai dimostrata, tra consumo di alimenti ricchi di acidi grassi e probabilità di essere colpiti da un evento coronarico acuto, come l’infarto miocardico.


Si sa infatti che gli acidi grassi saturi e gli acidi grassi insaturi a conformazione trans tendono ad associarsi a un aumento del rischio, mentre gli acidi grassi monoinsaturi, e soprattutto polinsaturi, si associano a una riduzione del rischio.

Tra i polinsaturi, in particolare, il rischio si riduce aumentando il consumo sia dei cosiddetti Omega-3 (o n-3), di cui sono ricchi alcuni vegetali e gli alimenti di origine marina come il pesce, e il cui capostipite è l’acido alfa-linolenico, sia degli Omega-6 (o n-6), presenti soprattutto in oli vegetali e nella frutta secca, il cui capostipite è l’acido linoleico.

La valutazione dell'apporto alimentare di questi acidi grassi è tuttavia difficile, e spesso imprecisa. Per questo motivo ci si indirizza sempre più sulla misurazione diretta delle concentrazioni nel sangue intero, oppure in sue frazioni (siero, o globuli rossi).

La determinazione è precisa: misura direttamente la concentrazione dei vari acidi grassi nell'organismo e riflette in modo accurato non solo gli apporti alimentari di queste sostanze, ma anche la capacità individuale di metabolizzare, trasformare e utilizzare queste sostanze.

Lo studio AGE-IM, condotto da NFI con il supporto di 5 Unità di Terapia Intensiva Coronarica distribuite sull'intero territorio nazionale, ha valutato la presenza dei vari acidi grassi nel sangue intero di un campione di circa 100 soggetti colpiti da un recente infarto e di un numero analogo i soggetti di controllo, dello stesso sesso e di simile età, ma non colpiti dalla malattia.

I risultati dello studio, in pubblicazione a febbraio sulla rivista internazionale Atherosclerosis, forniscono alcune conferme e dati nuovi. Gli acidi grassi polinsaturi condizionano il rischio di infarto. I grassi saturi, tipici di molti alimenti di origine animale, sono infatti più presenti nel sangue dei soggetti colpiti da infarto che nei controlli, mentre i polinsaturi hanno concentrazioni elevate nel sangue di chi non aveva subito l’evento acuto.


Combinando i dati di casi e controlli, si mette in luce che livelli ematici più elevati di Omega-6 e di Omega-3 si associano a una drastica riduzione della probabilità di subire un infarto rispetto a concentrazioni degli stessi acidi grassi, nel sangue, più basse.

Queste percentuali sottolineano che entrambe le classi di polinsaturi hanno un ruolo protettivo. Cade quindi l’ipotesi che l’apporto corretto di polinsaturi debba essere calcolato come rapporto Omega-6/Omega-3, da mantenere il più basso possibile.

Nessuna associazione significativa si osserva invece tra l'apporto di singoli alimenti (o tra l’apporto alimentare, calcolato da questi dati, dei vari acidi grassi) e il rischio di infarto.

Dal punto di vista pratico lo studio suggerisce che in prevenzione primaria, ma anche nella prevenzione secondaria (delle recidive), bisogna probabilmente rivalutare un adeguato apporto di alimenti ricchi sia di Omega-6 sia di Omega-3.

Infatti, l'apporto di acidi grassi di ambedue queste classi è, storicamente, piuttosto basso in Italia. Lo studio AGE-IM ne è la prova più recente: i consumi totali di polinsaturi erano pari a circa 9 g al giorno (il 5% delle calorie), mentre le raccomandazioni internazionali suggeriscono un apporto del 5-10% delle calorie totali per gli Omega-6 e – dell’1-2% per gli Omega 3.

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FonteNFI

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